Architettura e lingua inglese

Do you speak english?Ospito di seguito un intervento del Prof. Renato Rizzi, professore associato di Composizione architettonica e urbana allo IUAV – Università di Venezia, sul tema dell’utilizzo della lingua inglese nella didattica dell’architettura. La lettera, che ringrazio Rizzi per avermi consentito di ripubblicare, si inserisce nel più ampio dibattito sulla internazionalizzazione delle facoltà umanistiche e tecnico-scientifiche. Lo trovo un punto di partenza molto interessante anche nell’ottica della costruzione di una offerta formativa fortemente competitiva a livello internazionale.  

Spiego […] la mia contrarietà all’introduzione della lingua inglese nei corsi d’insegnamento. Per questa ragione desidero esporre almeno due brevi considerazioni in merito, non volendo che il mio giudizio venga scambiato per pregiudizio (ideologico), come sembrerebbe invece apparire.

L’idea di introdurre in modo così massiccio la lingua inglese in tutte le discipline della nostra Università di Architettura IUAV, senza avere maturato prima alcuna consapevolezza  dello stato di disfacimento culturale raggiunto dai nostri saperi progettuali e compositivi (ICAR 14, ovvero il “progetto”, come nucleo fondante del patrimonio “”umanistico”” di IUAV, e non solo….) è l’ennesima dimostrazione (questa sì, ideologica) del totale disfacimento e condanna proprio di quegli stessi sapere “”umanistici””. Il “Progetto di Architettura” è ormai considerato un perfetto “inesistente”. Una scomoda “inutilità e nullità”. Infatti, in assenza di una critica consapevole alla paradigma della cultura contemporanea, la lingua inglese non può operare che come una scopa. Spazzerà via anche gli ultimi residui e detriti sparsi della nostra lingua italiana.

Comunque, nel rivolgermi a te e più in generale a coloro che appartengono a ICAR 14, posso testimoniare che nel decennio trascorso con Eisenman e Hejduk a N.Y., le grandi questioni afferenti all’Architettura non riguardavano (e non riguardano tuttora) la lingua che parli, ma la cultura che ti denota, che ti caratterizza. E quella italiana era (ed è) ai massimi livelli per Architettura. Palladio e Terragni, per Eisenman, sono sempre stati i presupposti storici che proteggono e legittimano il suo linguaggio architettonico. Nel corsi a Harvard, alla Cooper Union, a Princeton, la cultura umanistica italiana (Tafuri, Agamben, Cacciari, Rella…Rossi….) era l’orizzonte permanente di riferimento. Ripeto, la “cultura”, non la “lingua” che parli.

Lo studente estero non verrà mai all’IUAV perché si insegna in inglese a Venezia, ma perché si insegna (o si dovrebbe insegnare) il progetto di Architettura. Anzi, qualcosa di speciale (che è Venezia) rispetto ad Architettura.

La lingua inglese è la lingua della “globalizzazione”, lingua che ha già imprigionato il mondo (e le nostre menti) nella rete (virtuale). E sarà anche l’occasione, quella dell’inglese, per azzerare  definitivamente qualsiasi valore culturale delle materie progettuali, che NON sono esclusivamente tecniche…..bensì umanistiche.

Ecco un buon esempio che spiega la questione tra cultura dominante (tecnico-economico-scientifica) con le culture emarginate (umanistiche).

Ottobre scorso anno, USA, finale dei Rethorical Debates. L’invincibile Harvard risulta clamorosamente battuta da un piccolo college newyorkese, istituto privato di studi umanistici. Il Bard College aveva impostato un programma educativo rivolto al recupero di detenuti condannati per reati violenti. Questi tre carcerati sbaragliano i pupilli di Harvard sul tema: “è giusto che le scuole pubbliche, finanziate dai contribuenti, siano aperte a immigrati senza documenti e ai loro figli?” I tre ex “criminali” (tuttora in carcere) hanno vinto argomentando che le scuole pubbliche sono pessime e inutili soprattutto in quelle “località dove gli immigrati e gli illegali si rifugiano o si nascondono”. La vittoria è stata ottenuta grazie ad un ragionamento autenticamente e criticamente umanista, mentre i tre harvardiani erano ancorati agli schematismi demagogici del pensiero “dominante” (globalizzazione). In soldoni: l’argomentazione critico-culturale sulla “vita” aveva scardinato l’impalcatura scientifica delle “norme” (intellettuali).

Non è dunque la lingua il problema, bensì la capacità critica che deve affondare dentro la (le) cultura/e. E Architettura (non solo per noi IUAV) occupa l’epicentro.

Sarei invece d’accordo nell’introdurre l’inglese all’IUAV in altro modo. Perché non invitare, per esempio, Derrek Walcott, premio Nobel per la Letteratura nel 1992, ad un ciclo di lezioni sulla sua opera. Un master speciale in inglese, autentico, stupendo inglese, sulla letteratura, ma contemporaneamente paradigma per Architettura?

Molte sarebbero le ragioni a favore. La prima: la sua creazione più importante, Omeros, è un omaggio ad Omero e a Dante. La seconda, più articolata. Tutta la sua opera appartiene ad un “isola”, S. Lucia, nell’arcipelago caraibico delle Indie Occidentali. Analogia con l’ “isola” Venezia. Una naturale-epica, l’altra storica-theologica. Ma tutto il pensiero di Walcott (basterebbe leggere il suo discorso fatto in occasione del accettazione del Nobel) per capire l’impostazione di uno straordinario un programma “architettonico”. Certo, spirituale, poetico, ma tremendamente architettonico.

Allora sì che IUAV potrebbe calamitare molti studenti di Architettura (Arte, Design, Moda….) e offrire qualcosa di unico (in inglese’ per davvero) in una scuola “unica” per l’unicità di Venezia. Dove finalmente parole come  sostenibilità, partecipazionesociale, troverebbero finalmente quel riscatto rappresentativo che le sottrae dalla palude dell’insignificanza (ed arroganza), per restituirle a quelle immagini e forme che appartengono alla vita autentica dei “luoghi”. Ovvero, alla vita di tutti noi, (e dunque di IUAV).